
LETTURE BIBLICHE
Prima Lettura: At 2,1-11;
Salmo: Salmo 103 (47);
Seconda Lettura: 1 Cor 12,3b-7.12-13;
Vangelo: Gv 20,19-23.
Domenica di Pentecoste “Come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa”? (Don Domenico Ricca)
Riprendendo in parte la riflessione condivisa Lunedì sera nella Chiesa di Santa Teresa, voglio soffermarmi sulla questione delle lingue. L’episodio di At 2, 1-11, è quasi una risposta a Gn 11,1 allorché alla tentazione di avere un’unica lingua e costruire una torre fino al cielo per significa care la potenza di quella città, il “Signore li disperse di la su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché il Signore là confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore si disperse su tutta la terra” (Gn 11,8-9). Dicono i commentatori: Che tutta la terra parlasse “la stessa lingua” e usasse “le stesse parole” sembra rappresentare l’ideale del nascente impero. Gli imperi richiedono uniformità. Usare “le stesse parole” significa essere solidamente unificati nel linguaggio della classe dominante. Gli imperi hanno sempre fatto di tutto per imporre il loro linguaggio e la loro cultura. I romani e i greci sono esempi di grande successo in questo senso. Così se il nascente impero aveva già il potere militare simboleggiato dal “primo soldato del mondo”, la tecnologia per costruire e l’uniformità culturale, quello che mancava era soltanto un capolavoro dell’architettura quale simbolo di potenza e magnificenza. Un simbolo che lo avrebbe legato anche al potere divino, qualcosa di simile ad un grattacielo, secondo il modello dei famosi templi babilonesi (Ziggurat) che erano costruiti su larghe piattaforme e lunghe scalinate. Ed eccoci sulla via verso la divinizzazione dell’impero e dei suoi imperatori, la via seguita da tutti gli imperi. “Figlio di Dio” era il titolo dato all’imperatore dall’antico Egitto fino agli imperatori romani.
La torre di Babele è il simbolo dell’arroganza, dell’orgoglio e dell’egemonia di un impero che stava cercando di riunire tutti i fili della dominazione e dell’autoritarismo. “Avere una sola lingua e usare le stesse parole” è stato sempre un ideale imperiale.
Ecco perché l’intervento del Dio di giustizia si doveva manifestare nell’ambito più vulnerabile; l’ideologia della uniformità imposta andava spezzata e il progetto di divinizzazione paralizzato.
La confusione delle lingue è stato interpretato come un castigo divino della superbia umana. Ma non si dice da nessuna parte che fu un castigo. Al contrario io credo che questa confusione non fu che una saggia benedizione di Dio che fece germogliare la diversità culturale, ivi compreso un elemento di umorismo; quella diversità che è ancora tanto temuta dagli imperialisti, gli autoritari, i violenti, i fanatici dei dogmi, quelli che si credono depositari della verità assoluta. Questo spazio di diversità è l’opportunità perché possano scaturire i doni di grazia dei quali come esseri umani siamo dotati. Essere quello che siamo, non quello che altri ci impongono di essere!
Per l’evangelista Luca che tutti capissero significa “affermare la dimensione universale della Salvezza. La dimensione universale della Chiesa deve condurla a parlare in tutte le lingue, ad assumere tutte le culture che esse esprimono e a ritradurre, sempre e di nuovo, il suo messaggio per renderlo comprensibile agli uomini e alle donne di ogni tempo e di ogni luogo” (Luigi Nason)
Fraternamente
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