Prima Lettura: Dn 12,1-3;
Salmo: Salmo 15 (16);
Seconda Lettura: Eb 10,11-14.18;
Vangelo: Mc 13, 24-32.
“La venuta del figlio dell’uomo nella gloria” (dal commento di fr. Enzo Bianchi Bose)
Con questa domenica termina la lettura cursiva del vangelo secondo Marco, che abbiamo ascoltato nell’assemblea domenicale lungo tutta l’annata liturgica B.
Le parole di Gesù su cui oggi meditiamo sono quelle da lui pronunciate negli ultimi giorni della sua vita, prima della passione e morte; parole da lui rivolte sul monte degli Ulivi ai quattro discepoli della prima ora (cf. Mc 1,16-20), quelli a lui più vicini: Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea (cf. Mc 13,3). Il cosiddetto “discorso escatologico” è molto lungo – occupa tutto il capitolo 13 ed un messaggio in un linguaggio codificato, secondo il genere apocalittico, un linguaggio che vuole essere rivelativo, profetico, pur risultando a volte oscuro, di difficile interpretazione.
Noi ne leggiamo per l’appunto solo la parte finale, l’annuncio della venuta gloriosa del Messia, quando si sarà verificata la distruzione del tempio e sarà passato il tempo della storia, nella quale guerre, calamità e persecuzioni si faranno dolorosamente presenti nella vita di uomini e donne (come vediamo da che mondo è mondo…).
Gesù vuole parlare di questi eventi, per rivelare una realtà dai tratti indescrivibili. In realtà, non sappiamo in che forma contempleremo il Signore veniente; possiamo solo dire che allora lo riconosceremo tutti, anche quelli che durante la loro vita non l’hanno mai riconosciuto nell’affamato, nell’assetato, nel malato, nello straniero, nel carcerato, nell’ignudo (cf. Mt 25,31-46). Anche quelli che hanno trafitto Gesù o hanno trafitto il povero, la vittima, allora lo riconosceranno, si batteranno il petto (cf. Ap 1,7) e capiranno che le trafitture inferte all’altro, al fratello o alla sorella, erano trafitture che raggiungevano il Signore, il quale ora si mostra giudice misericordioso ma temibile. Sarà quella anche l’ora del raduno di tutti gli eletti, i giusti, quelli che hanno vissuto esercitando fiducia nell’altro, sperando insieme agli altri, amando chi avevano accanto e, con il loro comportamento, rendevano prossimo, vicino. I figli di Dio dispersi saranno finalmente una comunione, che non conoscerà più né morte, né male, né peccato (cf. Is 35,10; Ap 21,4).
La venuta del Figlio dell’uomo sarà come l’estate che i contadini sanno prevedere, guardando soprattutto la pianta di fico: quando il fico, per il risalire della linfa, intenerisce i suoi rami e si aprono le gemme rimaste chiuse per tutto l’inverno, allora sta per scoppiare l’estate. Così, se il credente sa leggere la storia, aderendo alla realtà quotidiana della vita umana e ascoltando la parola di Dio che sempre risuona nel suo “oggi” (cf. Sal 95,7), allora sarà pronto per l’ora della venuta temibile e misericordiosa del Signore. Si tratta – come si legge nella conclusione del discorso (cf. Mc 13,33-37), quella con cui abbiamo aperto l’anno liturgico, nella I domenica d’Avvento – di vegliare, di restare vigilanti, desti, capaci di esercitare l’intelligenza per discernere e non essere trovati addormentati o spiritualmente intontiti…
Sarà la fine? Sì, ma quella fine porta un nome: è il Signore Gesù Cristo, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, uomo e Dio che è venuto nel mondo, da Dio qual era (cf. Fil 2,6), per farsi uomo, e verrà nella gloria perché l’uomo diventi Dio. Allora, finalmente, Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28): tutta l’umanità sarà in Dio e ognuno di noi sarà il Figlio di Dio.